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           vano intrapreso «una gara di trattenimenti, rinfreschi, cene ed acca-
           demie perfino», così almeno si mormorava, «qualche giuoco di bas-
           setta» tramutando, così, i «severi militari pensieri» in «gozzoviglie e
           divertimento». Tutto ciò, osservava Beccaria, trascurando la spesa,
           ininfluente  «ad  alcuni  facoltosi»,  diventava,  in  quelle  circostanze,
           insopportabile ai più, che erano colpiti dall’indigenza e non potevano
           che essere irritati dal «confronto tra la miseria dei questuanti tessitori
           e «il lusso de’ cittadini armati in difesa contro di essi». Certamente
           l’intera questione del mantenimento della Guardia civica non era solo
           legata a esigenze di ordine pubblico. Essa fu l’occasione propizia,
           colta dai nobili, ai quali era stata lentamente sottratta la regìa della
           politica cittadina già da Maria Teresa e poi da Giuseppe II, perché
           venisse nuovamente riconosciuta una delle loro antiche prerogative
           che li distingueva dal popolo: la facoltà di portare le armi, segno di
           distinzione immediatamente percepibile da tutti 100 . Dunque uno dei
           momenti più difficili della storia economica e sociale di Como fu stru-
           mentalizzato dalla nobiltà cittadina per ridefinire una separazione di
           rango tanto contrastata in età giuseppina, giacché l’atteggiamento
           apparentemente più benevolo di Leopoldo II sembrava consentirlo. Lo
           comprese certamente Beccaria ma, dal momento che la spesa sarebbe
           ricaduta interamente sui «cittadini che spontaneamente» si fossero
           iscritti nella Milizia, giudicò che il governo ne avrebbe solo tratto van-
           taggio 101 . Inoltre la Milizia si sarebbe sciolta all’arrivo del nuovo con-
           tingente,  per  poi  essere  richiamata  solo  in  situazioni  di  estrema
           necessità. In fondo ciò che concedeva il governo era solo un ricono-
           scimento esteriore, non altro. Di diverso avviso erano, però, i decu-
           rioni, che in quella fessura videro la possibilità di rinnovare il loro
           ruolo con il nuovo imperatore.
              In  questa  scelta,  certo  marginale  o  almeno  tale  fu  valutata  dal
           governo, emerge il timbro del periodo di transizione nel quale i nobili,
           resistendo con il loro impegno imposto dal ruolo aristocratico, ribadi-
           rono il compito di quella élite che nel corso del tempo aveva curato la
           conservazione e la gerarchia sociale, priva però di eccessi e di fanati-
           smo. È questo legame, questa conoscenza della realtà economica, que-



              100  Alcuni studi hanno evidenziato il nesso simbolico tra la possibilità di portare le
           armi e il suo significato sociale, vigente in Toscana e in Lombardia già a partire dagli
           anni ’70 fino ai primi anni di dominio francese. Angiolini, Le bande medicee tra «ordine»
           e «disordine», in L. Antonielli, C. Donati (a cura di), Corpi armati e ordine pubblico in Italia
           (XVI-XIX sec.), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 43 citato da L. Antonielli, Il controllo
           cit., p. 8. Sulla licenza di porto d’armi, L. Antonielli, Le licenze del porto d’armi nello stato
           di Milano tra Seicento e Settecento: duttilità di una fonte, in L. Antonielli, C. Donati (a
           cura di), Al di là della storia militare: una ricognizione sulle fonti, Rubbettino, Soveria
           Mannelli, 2004, pp. 99-125.
              101  C. Beccaria, Opere cit., XII, p. 537.



           Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIV - Dicembre 2017    n.41
           ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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