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Sguardi mediterranei sulla «civiltà olandese del Seicento»: il caso toscano   747


                       Dalla genesi dell’astio e dei primi conflitti tra Batavi e Romani, te-
                    stimoniati  da  Tacito  «nel  quarto  delle  Storie»  al  passato  recente,
                    quando «Ferdinando, Duca d’Alva, mandato ne’ Paesi bassi ad acqui-
                    stare le prime rivoluzioni, e tumulti, usando intempestivamente lo ri-
                    gore, e la spada contra alcuni de’ principali, diede potentissima causa
                    alla totale alienazione delle Provincie dal Servizio del RE, e dall’ubi-
                    dienza a’ ministri», lo spirito degli olandesi era stato improntato a suo
                    dire alla libertà. Una libertà che, attraverso il coraggio e quasi l’inco-
                    scienza di spingersi ad una guerra teoricamente impossibile a vincersi
                    contro un nemico enormemente più potente, giunge al punto di sfidare
                    la ‘natura’ politica delle cose, ovvero gli assetti del potere costituito,
                    costituito cioè dal dominio del «Rè Catholico, che per successione n’è
                    Signore, e padron naturale». «Adesso», soggiunge Belli, «questi populi
                    si ritrovano in libertà, per conservare, la quale, fanno quello, che di-
                    ceva Agide, figliuolo di Archidamo, il quale, come racconta Plutarco ne
                    gli Apoftegmi, interrogato, in qual modo si mantenesse la libertà, ri-
                    spose; col disprezzare la morte» .
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                       Sembra in generale di poter dire che, allo sguardo di Belli, cioè di
                    un veneziano del Seicento (certamente familiare per analogia alle pe-
                    culiarità territoriali dei Paesi Bassi) questo spirito di libertà degli olan-
                    desi pare essere mutuato e assorbito dalla loro stessa terra, attraverso
                    una sorta di sfida umana alla natura: pur parlando «solamente di quel
                    poco ed angusto tratto veduto d’intorno ad Aga», egli affermava infatti
                    che «la terra è un’aborto della Natura: l’aria inclemente anzi, che nò;
                    l’acque pessime i frutti pochi, e sciapiti. Il terreno è tutto pastura, ec-
                    cettuati pochissimi angoli, ne’ quali si semina, ma però altro grano,
                    che formento. La turba è un misto di acqua, di terra, e di legna, di cui
                    nutrendosi per ordinario il fuoco scalda poco le membra, & offende
                    molto la testa» . Una terra inclemente, dunque, in cui non tanto la
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                    normale  compresenza  degli  elementi  naturali  (aria,  acqua,  terra,
                    fuoco), quanto la loro inconsueta combinazione (inscindibile contami-
                    nazione di acqua e terra con predominio della prima sulla seconda
                    anche  in  aree  di  ‘terraferma’)  o  in  questo  specifico  caso  il  conflitto
                    aperto (il fuoco che si nutre della terra quando si brucia la torba), de-
                    terminano un’estremizzazione delle condizioni di vita degli uomini.
                       L’essenza dell’effetto straniante che l’osservazione (o il tentativo di
                    interpretazione) di questo territorio aveva sui viaggiatori è qui espressa
                    dal compendio «aborto della natura»: un termine non censito, a diffe-
                    renza  dell’ipercorretto  abortivo,  nella  più  recente  edizione  (la  II,  del
                    1623)  del  Vocabolario  degli  Accademici  della  Crusca  disponibile  al


                       83  Cfr. ivi, p. 96.
                       84  Cfr. ivi, pp. 96-97.


                                               Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIX - Dicembre 2022
                                                           ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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