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           Pane e companatico: la divisione tra cantine e osterie

              A non molta distanza da piazza San Michele, sorgeva un altro ele-
           mento fondamentale del mercato annonario lucchese, ossia la citta-
           della,  un  vasto  complesso  di  edifici  contenenti  le  attrezzature
           necessarie alla conservazione dei cereali, alla molitura del frumento e
           alla panificazione. Tali attività avevano un’importanza decisiva per la
           Repubblica, non solo dal punto di vista alimentare, ma anche fiscale.
           A Lucca, infatti, la produzione del pane venale, destinato a essere ven-
           duto agli abitanti della città e delle Sei Miglia, era sottoposta a mono-
           polio statale, gestito sotto forma di «jus privativo» dall’Offizio sopra
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           l’Abbondanza .
              Esso doveva essere «della megliore qualità possibile» – in conformità
           dei dettami dell’economia morale – e messo in vendita ad un costo
           accessibile, eticamente accettabile e indipendente dall’andamento del
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           mercato . D’altra parte quello di pane – almeno nelle società mediter-
           ranee – era un bisogno primario e irrinunciabile, talmente radicato a
           livello popolare che la sua domanda sul mercato non era affatto ela-
           stica, ma si manteneva sugli stessi livelli anche nei periodi di infla-
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           zione . Il prezzo del pane quindi, secondo un meccanismo assai diffuso
           nelle realtà di Antico Regime, non veniva stabilito in relazione al costo
           del grano, ma nei limiti del possibile era mantenuto su livelli normali




              49  Mentre la produzione del pane venale era sottoposta a monopolio statale e dun-
           que  poteva  essere  effettuata  soltanto  all’interno  della  cittadella,  quella  destinata
           all’autoconsumo era permessa: i forni privati avevano la possibilità di panificare il
           grano che i clienti vi portavano per proprio consumo, oppure, e più semplicemente,
           di cuocere il pane crudo precedentemente lavorato a domicilio. Nel 1663 e nel 1689,
           fu fatto un tentativo per appaltare ai privati il commercio del pane, ma i risultati si
           rivelarono modesti, sia per le casse dello Stato, sia per la qualità del prodotto messo
           in vendita. Di questa possibilità si tornò a discutere nel 1730 e nel 1767, ma sia la
           proposta di mettere nuovamente in vendita il provento della cittadella, sia il progetto
           di gestirne i forni e i mulini secondo un regime di compartecipazione tra lo Stato e i
           privati restarono, alla prova dei fatti, lettera morta. Cfr. M. Giuli, Il governo di ogni
           giorno cit., pp. 78-94. Più in generale, sui rapporti tra commercio del pane e fisco in
           Antico Regime, si veda E.C. Colombo, Dalla finanza al consumo. Note sulla panifica-
           zione nelle campagne della Lombardia spagnola, in G. Archetti (a cura di), La civiltà
           del pane. Storia, tecniche e simboli dal Mediterraneo all’Atlantico, Fondazione CISAM,
           Spoleto, 2015, pp. 801-818.
              50  Asl, Libri di corredo alle carte della Signoria, n. 2, c. 15rv.
              51  E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea cit., pp. 69-80; M. Montanari, La
           fame  e  l’abbondanza cit.,  pp.  62-67,  130-135;  D.  Gentilcore,  II  pane  nell’Europa
           moderna tra dietetica e alimentazione (sec. XVI-XVIII), in G. Archetti (a cura di), La civiltà
           del pane cit., pp. 1131-1150; C. Bargelli, Dal necessario al superfluo. Le arti alimentari
           parmensi tra medioevo ed età moderna, FrancoAngeli, Milano, 2013, pp. 17-72, dove
           si evidenzia la «tirannia del necessario» rappresentata dal «binomio pane-vino» a livello
           alimentare.



           Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIV - Dicembre 2017    n.41
           ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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