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752 Michele Lupo Gentile
La sera, mentre dai monti soffiava un piacevole venticello e un
grosso carrubo vicino mormorava alla casa chi sa quali vecchie storie
di fate e di maghi, si levava la luna, che copriva tutto il paesaggio
d’un manto argenteo. Intanto le pecore tornavano a branche agli ovili
sotto la guida dei loro pastori: si udiva in lontananza un tinnire di
campane, specie quella di S. Antonino e della Madrice Vecchia, un
echeggiare lontano di canti, e un abbaiare rabbioso e fastidioso di
cani che se la prendevano coi viandanti, che s’attardavano per le
stradicciole sassose, fischiando o cianciando storie d’amore. I conta-
dini allora si raccoglievano a veglia sull’aia, all’aperto; ed io me ne
stavo volentieri con loro. C’erano i vecchi, dai lineamenti duri ed os-
suti, con volti bruciati dal sole, scuri come i profili delle monete an-
tiche, e c’erano i vecchi e le allegre picciottelle (giovanette) dagli oc-
chioni neri e luminosi, dal naso greco e dalle labbra tumide e rosse
come fragole; creature magnifiche di forza e di bellezza. Tutta una
razza vigorosa che sembrava raccogliesse l’agilità degli Arabi, la com-
postezza serena dei Greci, e la forza degli antichi conquistatori
dell’isola! Discorrevano adagio e gravi, come se fossero in assemblea
a discutere seriamente dei loro interessi. I giovani cantavano o a coro,
o l’un dopo l’altro, canzoni ardenti e tristi. La loro poesia era ricca di
immagini e pensieri profondi: la melodia soave e melanconica, con
motivi somiglianti a nenie funebri da strappare le lacrime. Io mi sten-
devo per terra, con le mani sotto il capo, guardando il cielo dai riflessi
verdi ed azzurri e la luna che mi sembrava smuovesse, in alto lenta,
lenta; ed ascoltavo quelle canzoni d’amore. Qualche volta mi com-
muovevo e piangevo in silenzio, facendo cadere larghe lacrime sulle
guance e sulle ristoppie. Com’era dolce e soave quel pianto!
I canti che io pubblico me li dettò una sera Turi Sferruzza, conta-
dino dalle spalle quadrate, dal viso rubicondo e dagli occhi vivi e ma-
liziosi, addetto ai servizi della piccola azienda di mio padre. Li offro
ai lettori così come erano cantati, cioè in dialetto siculo, colla tradu-
zione in prosa. Vi si sente l’eco dei magnifici canti dei lirici greci:
«Sùseti, bella, e sùseti matinu; / senti lu cantu di lu rusignolu: / sutta
lu to palazzu cc’è un iardinu; / un pè d’aranciu caricatu d’oru; / d’ogni ra-
muzza cc’è fattu lu niru; / stira la manu e ti ‘nni piggli unu, / e ti lu metti
‘ntra ‘na gargia d’oru. / La gargia siti vui, donna d’amuri, l’acèilu sugnu eu,
chi cci aju a stari».
Traduci: «Alzati bella, e alzati presto / senti il canto dell’usignolo / sotto
il tuo palazzo c’è un giardino / un piede [=albero] d’arancio carico d’oro / c’è
un nido per ogni ramoscello / tendi la mano e prendine uno e mettilo dentro
una gabbia d’oro / La gabbia siete voi, donna d’amore / l’uccello sono io che
ci debbo stare».
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVII - Dicembre 2020
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)