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                   La  sera,  mentre  dai  monti  soffiava  un  piacevole  venticello  e  un
                grosso carrubo vicino mormorava alla casa chi sa quali vecchie storie
                di fate e di maghi, si levava la luna, che copriva tutto il paesaggio
                d’un manto argenteo. Intanto le pecore tornavano a branche agli ovili
                sotto la guida dei loro pastori: si udiva in lontananza un tinnire di
                campane, specie quella di S. Antonino e della Madrice Vecchia, un
                echeggiare lontano di canti, e un abbaiare rabbioso e fastidioso di
                cani  che  se  la  prendevano  coi  viandanti,  che  s’attardavano  per  le
                stradicciole sassose, fischiando o cianciando storie d’amore. I conta-
                dini allora si raccoglievano a veglia sull’aia, all’aperto; ed io me ne
                stavo volentieri con loro. C’erano i vecchi, dai lineamenti duri ed os-
                suti, con volti bruciati dal sole, scuri come i profili delle monete an-
                tiche, e c’erano i vecchi e le allegre picciottelle (giovanette) dagli oc-
                chioni neri e luminosi, dal naso greco e dalle labbra tumide e rosse
                come fragole; creature magnifiche di forza e di bellezza. Tutta una
                razza vigorosa che sembrava raccogliesse l’agilità degli Arabi, la com-
                postezza  serena  dei  Greci,  e  la  forza  degli  antichi  conquistatori
                dell’isola! Discorrevano adagio e gravi, come se fossero in assemblea
                a discutere seriamente dei loro interessi. I giovani cantavano o a coro,
                o l’un dopo l’altro, canzoni ardenti e tristi. La loro poesia era ricca di
                immagini e pensieri profondi: la melodia soave e melanconica, con
                motivi somiglianti a nenie funebri da strappare le lacrime. Io mi sten-
                devo per terra, con le mani sotto il capo, guardando il cielo dai riflessi
                verdi ed azzurri e la luna che mi sembrava smuovesse, in alto lenta,
                lenta; ed ascoltavo quelle canzoni d’amore. Qualche volta mi com-
                muovevo e piangevo in silenzio, facendo cadere larghe lacrime sulle
                guance e sulle ristoppie. Com’era dolce e soave quel pianto!
                   I canti che io pubblico me li dettò una sera Turi Sferruzza, conta-
                dino dalle spalle quadrate, dal viso rubicondo e dagli occhi vivi e ma-
                liziosi, addetto ai servizi della piccola azienda di mio padre. Li offro
                ai lettori così come erano cantati, cioè in dialetto siculo, colla tradu-
                zione in prosa. Vi si sente l’eco dei magnifici canti dei lirici greci:

                   «Sùseti, bella, e sùseti matinu; / senti lu cantu di lu rusignolu: / sutta
                lu to palazzu cc’è un iardinu; / un pè d’aranciu caricatu d’oru; / d’ogni ra-
                muzza cc’è fattu lu niru; / stira la manu e ti ‘nni piggli unu, / e ti lu metti
                ‘ntra ‘na gargia d’oru. / La gargia siti vui, donna d’amuri, l’acèilu sugnu eu,
                chi cci aju a stari».
                   Traduci: «Alzati bella, e alzati presto / senti il canto dell’usignolo / sotto
                il tuo palazzo c’è un giardino / un piede [=albero] d’arancio carico d’oro / c’è
                un nido per ogni ramoscello / tendi la mano e prendine uno e mettilo dentro
                una gabbia d’oro / La gabbia siete voi, donna d’amore / l’uccello sono io che
                ci debbo stare».






                Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVII - Dicembre 2020
                ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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