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                come invece, per esempio, nello Stato sabaudo . Nel Ducato era la-
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                sciato al singolo operatore scegliere il metodo da adottare nella fila-
                tura; né si interveniva sulla consuetudine di sottoporre le sete a trat-
                tamenti con materiali oleosi per facilitare l’incannatura . Inoltre – a
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                detta di Scorza – tutte le fasi della lavorazione della fibra erano affidate
                a una manodopera non sempre all’altezza del lavoro che compiva. Vi
                s’impiegava – scriveva – «ogni sorta d’operai», e anche in questo caso
                con qualche responsabilità da parte dello Stato, e nel lungo periodo: il
                problema  della  disciplina  del  lavoro  si  sarebbe  protratto  infatti  per
                tutto il Settecento, e oltre . E le ripercussioni sulla qualità dei prodotti
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                di operazioni svolte in modo non del tutto corretto, con tecniche non
                sempre all’avanguardia e da una manodopera non di rado non suffi-
                cientemente specializzata non erano di poco conto: i filati realizzati nel
                Ducato non erano robusti come quelli d’oltre Ticino, tanto che talvolta
                si rompevano quando erano lavorati a telaio .
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                   Molteplici, infine, le cause che compromettevano la competitività
                dei manufatti serici lombardi: la manodopera – come abbiamo com-
                preso – non sempre adeguata ai compiti che doveva svolgere, macchi-
                nari  carenti  in  fatto  di  «squisitezza»,  scarsa  «applicazione  all’inven-
                zione»; su tutti la mancanza di un articolo che caratterizzasse la pro-
                duzione locale.

                   Parma e Torino hanno de’ lustrini – specificava Scorza – Bologna de’ veli,
                Firenze delle moelle e signorie, Zurigo delle battavie, e de’ nastri, Vicenza de’
                droghetti, Genova delle saglie, de’ damaschi, e de’ velluti, Vigevano de’ fazzo-
                letti, Lione poi ogni sorta di drapperia. Noi – concludeva, sferzante – imitiamo
                tutti 28 .

                   D’altra parte proprio l’imitazione delle stoffe straniere aveva con-
                sentito la ripresa della tessitura milanese di drappi dopo la flessione
                secentesca, tanto da poter parlare di una «rinnovata vitalità» del set-
                tore fin dai primi decenni del XVIII secolo . Un consolidarsi, quindi,
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                   24  C. Poni, Standard, fiducia e conversazione civile: misurare lo spessore e la qualità
                del filo di seta, «Quaderni Storici», A. 32, n. 3 (1997), p. 719.
                   25  C. Cova, L’alternativa manifatturiera, in S. Zaninelli (a cura di), Da un sistema
                agricolo a un sistema industriale: il Comasco dal Settecento al Novecento, vol. I: Il difficile
                equilibrio agricolo-manifatturiero (1750-1814), Camera di Commercio, Industria e Agri-
                coltura di Como, Como, 1987, pp. 165-166.
                   26  Vds, p. 120; C. Cova, L’alternativa manifatturiera cit. pp. 166-167.
                   27  B. Caizzi., Industria, commercio e banca in Lombardia nel XVIII secolo, Banca Com-
                merciale Italiana, Milano, 1968, pp. 99-104.
                   28  Vds, p. 120.
                   29  L. Mocarelli, Una realtà produttiva urbana nel secolo dei lumi. Milano città atelier,
                Club, Brescia, 2001, pp. 139-150.



                Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVII - Dicembre 2020
                ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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