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D'Avenia (letture)_9  19/04/19  17:33  Pagina 180






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                    In questa prospettiva il disastro cui andò incontro l’Armada Invencible
                 nel 1588 era nella convinzione del re frutto dell’ira divina, motivo per
                 cui  «era  necessario  che  in  tutta  la  monarchia  si  svolgessero  riti  di
                 penitenza ed espiazione dei gravi peccati commessi dagli spagnoli che
                 avevano scatenato su di loro la furia delle tempeste». Invano, per altro,
                 alcuni dei suoi più capaci collaboratori avevano tentato di dissuadere il
                 sovrano dall’intraprendere l’impresa. Contemporaneamente, però, egli
                 «ordinò ai prelati del regno che elevassero preghiere di ringraziamento a
                 Dio per aver consentito il rientro nei porti spagnoli di gran parte della
                 flotta» (p. 202). La fede nella provvidenza componeva così contraddizioni
                 umanamente  inspiegabili.  Coerentemente  allora,  sul  letto  di  morte  e
                 mentre  era  tormentato  dai  dolori  di  un  corpo  già  in  disfacimento,
                 Filippo  «si  confessò  per  tre  giorni  interi,  si  comunicò  quattro  volte  e
                 altre due volte dopo l’estrema unzione […] e si circondò di reliquie», mo-
                 rendo da degno «sovrano cattolico della Monarchia cattolica» (p. 250).
                 D’altra parte un’aura apocalittica, altra faccia della medaglia del provvi-
                 denzialismo,  aveva  circondato  il  suo  regno,  apertosi  con  un  annus
                 horribilis, quel 1558 nel quale «perse il padre, la moglie, e due zie» (p.
                 65), e tramontato con la «crisi del sistema politico – un altro corpo in di-
                 sfacimento –, accompagnata dai disastri naturali, [la quale] segnava gli
                 ultimi anni di Filippo; il re stava per morire, per alcuni sgomberando la
                 monarchia  dalla  sua  lunga  presenza  (“Si  el  rei  non  muere,  il  Reyno
                 muere”, osava dire qualcuno)» (p. 249).
                    La fede di Filippo plasmò in buona misura anche la sua politica
                 coloniale di Ultramar, sulla quale il giudizio complessivo di Spagnoletti
                 merita  di  essere  riportato  per  equilibrio  e,  perché  no,  per  coraggio
                 storiografico:
                    Egli si adoperò, al meglio delle sue possibilità, per cristianizzare i popoli del
                 centro e del sud America e delle Filippine e la sua opera, assieme alla diffusione
                 della lingua castigliana in quelle contrade, fu forse il suo lascito più importante.
                 La hispanidad, ossia il senso di appartenenza ad una comunità mondiale che
                 riconosceva le sue origini nella Spagna, nonostante i tanti inopportuni o falsi
                 revisionismi, è il frutto del suo lungo regno, fatto anche di “descubrimientos,
                 conquista y organización” dei nuovi mondi (p. 248).
                    Nelle ultime righe del libro l’autore compone l’epitaffio finale di Fi-
                 lippo, che è anche un bilancio complessivo del suo operato, affidandosi
                 alle parole di un fine diplomatico quale il cardinale Guido Bentivoglio
                 (1577-1644), esperto di cose fiamminghe e francesi (era stato nunzio
                 papale  a  Bruxelles  e  a  Parigi)  e,  mi  si  permetta,  inconsapevole
                 profeta della nostra attualità politica: «Prencipe così memorabile, che
                 pochi altri a lui simili senza dubbio, e frà i più remoti tempi, e frà i
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                 più vicini, malagevolmente si troveranno» (p. 257) .
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                    7  Il corsivo è mio.


                 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVI - Aprile 2019      n.45
                 ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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