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638 Alessandra Mita Ferraro
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imprenditori e non dal «capriccio dei tessitori» . Essi, osservava l’In-
tendente, vendevano la seta semilavorata migliore nelle piazze estere e
lasciavano quella scadente nella produzione delle stoffe locali. Lo con-
fermava la loro opposizione a qualunque disciplina che li obbligasse a
fornire ai tessitori sete di buona qualità. Pertanto, le negligenze, che
poi venivano imputate ai lavoratori, dovevano essere ricondotte ai fab-
bricanti, che con le loro lamentele cercavano di dissimulare i difetti
insiti nel filato di cattiva qualità, da loro stessi fornito.
Certo anche i capi tessitori avevano le loro responsabilità: per far
fronte alle commesse avevano iniziato a concedere anticipazioni del
salario, pur di garantirsi la manodopera, fino a far lavorare al telaio
«qualunque persona purché per pochi giorni sia stata a vedere lavo-
rare gli altri». Quest’uso, però, aveva riversato nelle botteghe tessili
un gran numero di operai (fabbri, parrucchieri, legnaioli, giovani con-
tadini) attratti dalle iniziali favorevoli condizioni salariali. Il Funzio-
nario, per risolvere questo non secondario problema, suggeriva il
ripristino di un tirocinio che, senza tornare ai lacci delle antiche cor-
porazioni, garantisse un’adeguata formazione professionale. Un’altra
cattiva consuetudine, nella lista stilata da Pellegrini, riguardava
ancora la prassi di fabbricanti e capi tessitori di trattenere dalla paga
dei tessitori il pagamento dei loro debiti: inevitabile conseguenza
erano i furti di seta, ai quali i tessitori erano indotti, per la loro
minima sopravvivenza. Pertanto i tessitori risultavano il più facile
capro espiatorio, essendo gli ultimi ingranaggi di un farraginoso mec-
canismo in cui tutti i protagonisti erano stati messi lucidamente sotto
accusa da Pellegrini.
Solo nel 1789, dopo nuove manifestazioni di indisciplina dei tessi-
tori, il Consiglio di governo elaborò, sulla base dello schema del 1787
mai entrato in vigore, un piano disciplinare più volte reclamato dal-
l’Intendente: articolato in sedici punti, era volto a contrastare le abi-
40 Pellegrini riconobbe di essere stato ingannato dalle soluzioni proposte dalla Camera
di commercio comasca giudicata in realtà responsabile della crisi che cercava invece di
far ricadere esclusivamente sui tessitori giudicati responsabili del pessimo stato delle
cose, né tacque il sistema di protezioni e raccomandazioni che la Camera stessa pilotava.
Era in gioco il titolo di maestro cui i tessitori aspiravano spesso frutto di semplice estra-
zione a sorte. La proposta dell’Intendente era di assegnare il titolo a chi avesse realmente
provato la propria abilità, attribuendo ai tessitori la facoltà di eleggere i loro capi «perché
il manifatturiere solo è giudice dell’abilità dell’uomo». Parte della relazione di Pellegrini
è stata pubblicata da A. Visconti, Le condizioni degli operai agli albori dell’industria libera
in Lombardia, Stucchi Ceretti, Milano, 1923, pp. 17-24. Asco, Protocollo, in materia di
sanità e polizia, 1790; 674, Asco, Protocollo in materia di arti e commercio, 1786-92; F.
Pessina, La disciplina degli operai in Lombardia dopo la soppressione delle corporazioni
1787-1796, «Società e storia», III, 1978, pp. 481-500, qui pp. 485-487.
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIV - Dicembre 2017 n.41
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)