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           imprenditori e non dal «capriccio dei tessitori» . Essi, osservava l’In-
           tendente, vendevano la seta semilavorata migliore nelle piazze estere e
           lasciavano quella scadente nella produzione delle stoffe locali. Lo con-
           fermava la loro opposizione a qualunque disciplina che li obbligasse a
           fornire ai tessitori sete di buona qualità. Pertanto, le negligenze, che
           poi venivano imputate ai lavoratori, dovevano essere ricondotte ai fab-
           bricanti, che con le loro lamentele cercavano di dissimulare i difetti
           insiti nel filato di cattiva qualità, da loro stessi fornito.
              Certo anche i capi tessitori avevano le loro responsabilità: per far
           fronte alle commesse avevano iniziato a concedere anticipazioni del
           salario, pur di garantirsi la manodopera, fino a far lavorare al telaio
           «qualunque persona purché per pochi giorni sia stata a vedere lavo-
           rare gli altri». Quest’uso, però, aveva riversato nelle botteghe tessili
           un gran numero di operai (fabbri, parrucchieri, legnaioli, giovani con-
           tadini) attratti dalle iniziali favorevoli condizioni salariali. Il Funzio-
           nario,  per  risolvere  questo  non  secondario  problema,  suggeriva  il
           ripristino di un tirocinio che, senza tornare ai lacci delle antiche cor-
           porazioni, garantisse un’adeguata formazione professionale. Un’altra
           cattiva  consuetudine,  nella  lista  stilata  da  Pellegrini,  riguardava
           ancora la prassi di fabbricanti e capi tessitori di trattenere dalla paga
           dei  tessitori  il  pagamento  dei  loro  debiti:  inevitabile  conseguenza
           erano  i  furti  di  seta,  ai  quali  i  tessitori  erano  indotti,  per  la  loro
           minima sopravvivenza. Pertanto i tessitori risultavano il più facile
           capro espiatorio, essendo gli ultimi ingranaggi di un farraginoso mec-
           canismo in cui tutti i protagonisti erano stati messi lucidamente sotto
           accusa da Pellegrini.
              Solo nel 1789, dopo nuove manifestazioni di indisciplina dei tessi-
           tori, il Consiglio di governo elaborò, sulla base dello schema del 1787
           mai entrato in vigore, un piano disciplinare più volte reclamato dal-
           l’Intendente: articolato in sedici punti, era volto a contrastare le abi-





              40  Pellegrini riconobbe di essere stato ingannato dalle soluzioni proposte dalla Camera
           di commercio comasca giudicata in realtà responsabile della crisi che cercava invece di
           far ricadere esclusivamente sui tessitori giudicati responsabili del pessimo stato delle
           cose, né tacque il sistema di protezioni e raccomandazioni che la Camera stessa pilotava.
           Era in gioco il titolo di maestro cui i tessitori aspiravano spesso frutto di semplice estra-
           zione a sorte. La proposta dell’Intendente era di assegnare il titolo a chi avesse realmente
           provato la propria abilità, attribuendo ai tessitori la facoltà di eleggere i loro capi «perché
           il manifatturiere solo è giudice dell’abilità dell’uomo». Parte della relazione di Pellegrini
           è stata pubblicata da A. Visconti, Le condizioni degli operai agli albori dell’industria libera
           in Lombardia, Stucchi Ceretti, Milano, 1923, pp. 17-24. Asco, Protocollo, in materia di
           sanità e polizia, 1790; 674, Asco, Protocollo in materia di arti e commercio, 1786-92; F.
           Pessina, La disciplina degli operai in Lombardia dopo la soppressione delle corporazioni
           1787-1796, «Società e storia», III, 1978, pp. 481-500, qui pp. 485-487.



           Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIV - Dicembre 2017    n.41
           ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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