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                   È ormai noto come negli anni ‘60 e ‘70 del XIX secolo l’Italia e il Giap-
                pone fossero connessi tra loro da un prospero commercio serico su larga
                scala. Questo commercio riguardava in particolare l’esportazione di una
                considerevole quantità di uova di baco da seta, il cosiddetto seme-bachi,
                dal Giappone al nostro Paese. L’esigenza dell’Italia di importare seme-
                bachi dal Giappone era dovuta al fatto che, a cominciare dal 1853, tutta
                la Penisola era stata colpita, sia pure in misura diversa da provincia a
                provincia, da una grave affezione epidemica del baco da seta: la noma-
                tosi o nosematosi (dal nome dello sporozoo patogeno Nosema bombycis),
                meglio conosciuta come pebrina. Originatasi in Francia a partire dagli
                anni ‘40 e diffusasi nel resto d’Europa nei decenni successivi, questa
                epizoozia ebbe gravi ripercussioni sull’economia della Penisola Italiana,
                specialmente nelle regioni settentrionali (data la grande importanza che
                vi  ricopriva  l’industria  serica) .  Di  conseguenza,  le  costanti  esigenze
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                delle grandi case seriche (ma anche dei piccoli sericoltori) del Nord Italia
                di rifornirsi di uova di baco da seta spinsero numerosi mercanti, non a
                caso  chiamati  semai,  a  recarsi  negli  angoli  più  remoti  del  globo  allo
                scopo di acquistare a qualsiasi prezzo grandi quantità di seme-bachi
                non ancora infetto, da importare in Italia.
                   I primi tentativi di importazione registrarono risultati puntualmente
                fallimentari: una volta in Italia, le uova provenienti dall’estero si dimo-
                strarono subito poco resistenti alla pebrina, perendo dopo poche gene-
                razioni; e per di più, nelle loro avventurose ricerche, alcuni semai ita-
                liani contribuirono, insieme ai loro colleghi europei, a diffondere il con-
                tagio nei paesi euroasiatici in cui si addentravano, con il risultato di non
                potere più importare sementi . Nel corso dei loro progressivi sposta-
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                menti verso Oriente, all’inizio degli anni ‘60, i mercanti italiani comin-
                ciarono a giungere in Giappone, da cui era possibile esportare ogni anno
                esemplari sani di seme-bachi, grazie al fatto che, diversamente che in
                altri paesi euroasiatici, in Giappone vigeva «la rigorosa proibizione di
                fare entrare nell’interno mercanti e produttori europei con le loro attrez-
                zature infette e con i loro allevamenti sperimentali di bachi europei por-
                tatori di malattia» . Di fatto, i semai italiani potevano rifornirsi di se-
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                menti  solo  nei  porti  aperti  al  commercio,  Yokohama  in  primis,  dove



                   1  B. Caizzi, La crisi economica del Lombardo-Veneto nel decennio 1850-59, Società
                editrice Dante Alighieri, Milano, 1958, p. 208
                   2  C. Zanier, Alla ricerca del seme perduto. Setaioli italiani in Giappone nella seconda
                metà dell’Ottocento, in A. Tamburello (a cura di), Nell’impero del Sol Levante – Viaggiatori,
                missionari e diplomatici in Giappone. Atti del convegno, Fondazione Civiltà Bresciana,
                Brescia, 1998, p.112.
                   3  C. Zanier, La seta ed i rapporti commerciali italo-giapponesi ai tempi della missione
                Iwakura, in S. Iwakura (a cura di), Il Giappone scopre l’Occidente: una missione diplo-
                matica (1871-73), Carte segrete, Roma, 1994, p. 68.



                Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVII - Dicembre 2020
                ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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