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                brocche piene d’acqua, che ci rovesciavamo addosso con grande sod-
                disfazione.  L’abilità  consisteva  nel  buttare  l’acqua  sulla  testa  del
                compagno,  mantenendo  asciutta  la  propria:  quindi  occorrevano
                mosse strategiche, e molta agilità nel lancio, per non provocare rot-
                tura di vasi. Pippo, che dormiva sodo in una camera molto appartata
                del Palazzo, non sentiva nulla; solo avvertiva nella mattina un odore
                strano di muffa nei corridoi, e se la prendeva coi camerieri che non
                avevano spazzato e lavato bene.
                   Un bel giorno, siccome alcuni studenti universitari ritenevano (e
                ritengono anche oggi) che i normalisti erano sgobboni, e spesso veni-
                vano  a  urlare  a  tarda  ora  delle  canzonacce  in  Piazza  dei  Cavalieri
                contro di noi, io, Castiglioni e Pellizzari stabilimmo di vendicarci; e,
                procuratici una siringa, grossa come una bombarda, nascosti dietro
                le persiane di una finestra del 3° piano, ci mettemmo a lanciare dei
                lunghi e poderosi getti di acqua a tutti coloro, studenti o civili, che
                sbucavamo  fuori  dalle  stradette  che  immettevano  nella  piazza.  Il
                colpo riuscì magnificamente. Ma, in seguito a ricorso presentato al
                Direttore, si dovette smettere per evitare guai. Nessuno seppe degli
                organizzatori!
                   Uno dei divertimenti preferiti, specialmente quando ci pareva di
                aver mangiato male, era di recarci, in gruppi numerosi, in Piazza dei
                Miracoli, proprio vicino alla porta d’ingresso del Duomo. Rivolti con
                le  spalle  al  tempio  e  la  faccia  al  Battistero,  alcuni  si  mettevano  a
                urlare: «come si sta alla Normale?». L’eco, che era molto chiara e assai
                sonora,  specialmente  nel  silenzio  della  notte,  rispondeva:  «male,
                male». Quindi tutti a ridere e a compiacersi che anche i gloriosi mo-
                numenti sapevano del nostro vitto e della nostra vita grama.
                   Veramente il vitto era buono, e la vita non affatto grama ma gli
                studenti, che stanno in collegio, o in istituiti di educazione, gratuita-
                mente, anche se vincitori di concorsi, hanno spesso la cattiva abitu-
                dine di dir male della cibaria, anche se questa sia assai succulenta e
                deliziosa. Castiglioni non poteva tollerare le scaloppine al marsala;
                io, i fagiolini di S. Anna coll’occhio, lessati; Pellizzari, il brodo colle
                patatine. Vidi una volta entrare nel magazzino, a pian terreno, della
                Scuola un barroccio, carico zeppo di fagiolini secchi. Apriti cielo! Misi
                in subbuglio i compagni, che ne rimasero desolati. In quel giorno,
                saturo di elettricità, non appena Pippo (che mangiava quasi sempre
                con noi) si alzò da tavola per recarsi nella sua stanza, io, credendo
                che lui non potesse sentirmi, scattai e dissi con aria donchisciotte-
                sca: «quando la faranno finita coi fagiolini e col sughetto, che sa di
                p… colle scaloppine e coi brodini palatosi?». Pippo intese, e, pochi
                minuti dopo, fummo chiamati ad rendendam rationem io, Pellizzari e
                Castiglione. «Vi fotto fuori, se non la fate finita, ribaldi e vagabondi





                Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVII - Dicembre 2020
                ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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