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                   Dopo due anni di dimora, ci eravamo molto affezionati a Sarzana
                e, circondati da tante cortesie e dimostrazioni di affetto, ci sembrava
                di respirare un’aria di famiglia. La cittadina, benché piccola, aveva
                case e strade comode e pulite e vari palazzi antichi, come quelli dei
                conti Picedi, dei marchesi Magni-Griffi e dei Signori Podestà, negozi
                provvisti di tutto, numerosi ed eleganti Caffè, Circoli di cultura, e
                soprattutto  aveva  dintorni  magnifici,  che  offrivano  modo  a  noi  di
                fare lunghe e belle passeggiate. Essendo il centro geografico, eco-
                nomico,  religioso  (una  volta  anche  politico  e  militare)  della  Luni-
                giana,  era  sempre  animata,  specialmente  le  domeniche,  per  l’af-
                flusso di contadini, che venivano dai borghi circonvicini a fare delle
                provviste o vendere delle merci. Ma, nonostante che la città ci of-
                frisse ogni conforto e ci desse modo di continuare i nostri studi, non
                eravamo del tutto contenti; un limbo talvolta aduggiava l’animo no-
                stro, perché lontani dalle famiglie, senza una madre o una sorella
                accanto,  che  potesse  allietare  la  nostra  solitudine,  specialmente
                quando tornavamo a casa. L’uomo, ch’è costretto a vivere fuor del
                paese natio, ricorda sempre la prima età ed è, come ben dice il Giu-
                sti, «come un albero svelto che lascia nel terreno molta parte delle
                sue radici».
                   Si cominciò a sentire il bisogno di una compagna, a cui si potesse
                confidare le nostre idee, i nostri propositi, che ci animasse nel lavoro
                quotidiano, che ci consigliasse, che lenisse i nostri crucci e secon-
                dasse le nostre aspirazioni. In breve, io e il Pelide Achille, pensammo
                ad accasarci; io mi misi a fare la corte a una signorina di nobile ca-
                sato, che mi piaceva molto, lui a una bellissima giovinetta, di famiglia
                borghese, alta e robusta, e dal profilo tizianesco, con cui aveva bal-
                lato varie volte al Circolo degli Impiegati durante le feste carnevale-
                sche. Avendo confidato le mie pene amorose al Dott. Biso, questi ne
                fu contento, e mi fece conoscere senz’altro la signorina, accompa-
                gnandomi lui stesso, ch’era medico di famiglia nella villa di Morano
                presso Falcinello. Sulle prime stetti, tremando, muto, mi impappinai
                un po’; ma poi mi feci animo, e manifestai i miei sentimenti nel modo
                più esplicito. Mi fidanzai, poco dopo, ufficialmente.
                   Pellizzari, invece, pur riuscendo simpatico alla signorina (egli era
                invero molto affascinante nella conversazione), non riuscì a convin-
                cere i genitori di lei, a concedergliela in isposa. Non so perché; i ge-
                nitori, assai religiosi, avevano saputo forse che il padre, preside in
                un Liceo classico, era frammassone. L’amico se ne accorò molto; ed
                io che gli volevo bene, come a un fratello, ne soffrivo. Fui così inge-
                nuo, vedendolo un giorno afflitto e disperato, che temetti non volesse
                togliersi la vita. Allora, da siciliano puro sangue, suggerii l’idea ge-
                niale della fuga (la foiuta). Lui, sulle prime, mi domandò se io non





                Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVII - Dicembre 2020
                ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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