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In nome del morto. Vescovi e testamenti dell’anima nel Regno di Napoli (secoli XVI-XVII) 57
giuridico, una formidabile arma giurisdizionale con la quale la Chiesa
difendeva la legittimità della consuetudine in virtù della quale si dichia-
rava valido l’intervento vescovile nei casi di morte intestata, che, per la
dottrina canonistica, includeva anche coloro che, pur avendo disposto
un atto di ultima volontà a fini patrimoniali e successori, erano comun-
que considerati intestati per non aver fatto lasciti pro anima, come
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testimoniano, nella pratica, i tanti interventi dell’episcopato regnicolo .
Le argomentazioni genovesiane, precedute da un Summarium,
affrontano nove questioni legate alla tematica centrale. Nel dettaglio,
la «Consuetudo, qua Episcopi faciunt testamenta ad pias causas pro
anima defunctorum qui decesserunt ab intestato», per il Genovesi
«valet, et pluribus comprobatur». Allo stesso tempo, la «voluntas cap-
tatoria» (rimessa a un terzo, nella specie il vescovo) «valet ad pias cau-
sas». Inoltre, la protezione vescovile riguarda tutti i defunti in quanto
«personae multum miserabiles»; e, ancora, è compito del vescovo distri-
buire «in usus pios» i beni dei pellegrini morti senza testamento nel-
l’ambito della propria diocesi. Tutti questi elementi sono giustificati
dalla validità di altre consuetudini: facoltà del vescovo di disporre «de
fructibus relictis a beneficiario»; validità dei testamenti fatti dai clerici
«de fructibus beneficiorum»; legittimità della «consuetudo testandi de
foeudis antiquis in praeiudicium agnatorum»; possibilità per il vassallo
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di alienare il feudo «sine assensu domini» .
Dopo aver esposto sommariamente gli elementi di validità (anche
dal confronto con altre disposizioni consuetudinarie) della pratica dei
testamenti dell’anima, il Genovesi procede a un’analisi più approfondita
36 L’imposizione del testamento dell’anima anche a coloro che, in vita, s’erano già
rivolti a un notaio regio per la stipula del loro testamento era una prassi riscontrata in
molte diocesi del Regno, come si rileva, tra gli altri casi, dalla vicenda che vide coinvolti,
in Terra d’Otranto, il vescovo di Gallipoli Consalvo de Rueda e gli eredi (il nipote e la
moglie) del gallipolino Giovanni Maria di Napoli, morto il 16 marzo 1624. Pur avendo, il
di Napoli, l’11 gennaio 1620, dettato al notaio di Gallipoli Francesco Alemanno un testa-
mento nuncupativo (nel quale «pro male ablato incerto reliquit carolenos quinque»), il
vescovo de Rueda, dopo aver proceduto a far compilare un dettagliato «Inventario delle
robbe del quondam Giovanni Maria di Napoli, che tiene, et possiede nel presente», lo
stesso giorno del decesso, prima di concedere la sepoltura ecclesiastica nella chiesa par-
rocchiale, impose il testamento dell’anima, dichiarando che il Di Napoli era morto «senza
far testamento, e toccando a Noi ex antiqua consuetudine disponere della robba c’ha
lasciato, e far il suo testamento ad pias causas per beneficio di sua anima». Non rispet-
tando la volontà manifestata in vita dal Di Napoli, il vescovo, arrogandosi la facoltà di
far il testamento al morto («testando dicemus»), dispose una serie di lasciti per la sepol-
tura del cadavere, per «l’esequie, et pompe funerali», per la celebrazione di 70 messe e 5
carlini «per mal ablato» (L’atto è conservato nell’Archivio Storico Diocesano di Gallipoli,
Fondo vescovi, cartella 2).
37 M. A. Genovesi, Praxis archiepiscopalis curiae Neapolitanae cit., p. 292.
n.42 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XV - Aprile 2018
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)