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Storia e letteratura. Catania, il fascismo e la guerra nel racconto di Sebastiano Addamo 347



                  L’odore di questo mondo in cui tutto ‘si tiene’ (dalle ‘signore’ alle
             prostitute, dai giardini pubblici, alle piazze, alle strade, ai vicoli), in cui
             le persone sembrano aderire ai luoghi, è destinato a trasformarsi in
             “puzza”: una città rivelata dagli odori non può che manifestare la sua
             decomposizione in fetidi miasmi.
                  Lo storico diffida invero di questi mondi ‘compatti’, di queste ‘strut-
             ture’ il cui crollo (o la cui trasformazione) sarebbe legata solo a una
             causa esterna (nel caso, la guerra), ed è spinto a cercare crepe, con-
             traddizioni, come tarli che rodono dall’interno, come uno stridio che
             faccia avvertire l’attrito del tempo. E in effetti non mancano le crepe
             nel mondo immaginato da Addamo se i fascisti sono definiti «rivoluzio-
             nari fasulli e borghesi mancati, o incarogniti» (p.118), e i loro piedi,
             come abbiamo visto prima, puzzano. Ma questo è il giudizio della sera
             di Addamo, non certo di Gino. Il tarlo è, dentro un mondo pieno di
             entusiasmo e certezze, Morico, che viene da Scordia, «un paese lontano
             e di poveri», che parla poco «ma sa il greco e il latino come un dio» (p.
             21), e tuttavia è sconfitto nel suo sogno di promozione sociale perché
             alla morte del padre dovrà fatalmente rassegnarsi a fare il contadino:
             «era destino che dovessi fare il contadino e tornerò a farlo. Qualcuno
             dovrà pur farlo» (p. 149).
                  Al “fascistissimo” Pippo, Morico oppone i suoi dubbi sino a dichia-
             rare, di fronte all’accusa di disfattismo: «mio padre è al fronte … E la
             guerra non mi piace» (p. 23). Il tarlo è «la strada che era poi un vicolo,
             con il sole che entrava soltanto per qualche ora ed era stentato e sem-
             pre debole come s’annoiasse a visitar luoghi del genere» (p.7); sono le
             case che dentro odorano di «cesso» e celano un sordo rancore o un
             muto rimprovero ai «quartieri senza odore», «pignolescamente puliti».
             Ma il tarlo è anche nell’ironia dei ragazzi e dei catanesi che non riu-
             scivano a prendere sul serio le prove di allarme e la corsa ai rifugi tra-
             sformavano in una sagra, facendo arrabbiare «il capofabbricato … con
             l’elmetto, la fascia attorno al braccio e l’ascia alla cintola» (p.18), inca-
             pace così bardato di convincere qualcuno della serietà della cosa, per-
             ché «a vederlo così impettito e sussiegoso» viene spontaneo pensare
             «sarebbe da vedere se con un bombardamento vero il tempo per la
             fascia l’avrebbe» (p.19). A stridere è il sarcasmo della padrona di casa
             che a vedere lo stesso capofabbricato alzare il braccio nel saluto fasci-
             sta borbotta «solo la mano ha tesa, ma il resto? », e i suoi figli chiama
             con sprezzo «figli del fascio» e la moglie «moglie del fascio» (p.19). Il
             tarlo era, l’abbiamo visto, la gelosia e l’ostilità nei confronti dei tede-
             schi. Dietro la facciata compatta del fascismo, si rivelano così crepe
             che la disastrosa esperienza bellica finirà con l’ampliare verso l’inevi-
             tabile crollo finale.
                  Ma prima che le crepe si aprano e il mondo “dei padri” crolli,
             Addamo introduce nel romanzo come uno specchio che mostra il rove-


             n.43                            Mediterranea - ricerche storiche - Anno XV - Agosto 2018
                                                      ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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