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Civale (saggi)_3  14/12/18  09:31  Pagina 514






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                 e la disciplina della comunità, si sentiva giustificato e per questo ne
                 domandò il riconoscimento mediante l’ammissione alla Cena.
                    Per i valdesi, Gianavello dovette costituire senza dubbio un esempio
                 di abnegazione nella provvidenza divina, di ascesi personale nel rendersi
                 braccio dei suoi disegni; proprio per questa ragione i suoi oppositori
                 ebbero il bisogno di abbatterne totalmente l’autorità, imbrattandone l’im-
                 magine. Semplice esecutore della volontà divina, vindice dei torti subiti
                 dal suo popolo e difensore della sua terra anche se l’adempimento di que-
                 sto mandato comportò opporsi alle leggi inique degli uomini, l’infamia del
                 bando, il darsi alla macchia e, infine, l’esilio, Gianavello può accomodarsi
                 all’archetipo hobsbawmiano del “bandito sociale” soltanto a condizione
                 che tra le aspirazioni delle genti che vi si riconosceva non si contemplino
                 soltanto le rivendicazioni dei corpi ma anche la realizzazione dell’anima.
                    Carico di una tale tensione spirituale, la sua figura sembra poter
                 essere accostata a quella che, all’incirca nel medesimo periodo, la reli-
                 giosità calvinista manifestò nella disperata, e per questo ancora più
                 necessariamente messianica, rivolta dei Camisards francesi, piuttosto
                 che nella New Model Army inglese. Nondimeno, le ragioni del suo cari-
                 sma non si esauriscono nelle virtù morali e militari di cui agli occhi dei
                 suoi fu dotato; come si è tentato di dimostrare: l’autorità di Gianavello
                 sui valdesi nasce e si giustifica soltanto all’interno del peculiare assetto
                 politico-religioso vigente nelle Valli, nella preminenza che i ministri riu-
                 scivano a esercitarvi, nella superiore investitura e legittimazione che
                 poterono conferirgli.
                    Di questa condizione parve egli stesso parzialmente consapevole
                 quando, riparato a Ginevra nel 1665, a un raffinato anfitrione volle
                 confessare che, se avesse potuto far ritorno in patria, «il se mettrait
                 derriére  sa  charrue,  comme  faisaient  les  capitaines  de  l’ancienne
                 Rome» . Nel ricorrere a quell’immagine mutuata dalla storia classica,
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                 di cui, contadino semianalfabeta, aveva sentito parlare, Gianavello
                 intendeva esprimere tutta la modestia e lo spirito di servizio che lo ave-
                 vano animato. Ma non era del tutto sincero, poiché di lì a pochi mesi,
                 come si è appurato, avrebbe tentato di ritornare alla sua terra per cer-
                 care il trionfo sui nemici di sempre; soprattutto, non si rendeva conto
                 che, al rievocare l’esempio di Cincinnato, riassumeva anche le contrad-
                 dizioni del sistema che lo avevano generato, quello di una repubblica
                 dei santi, affannosamente ricercata e ostinatamente difesa, che aveva
                 finito per farsi dittatura. Ancora una volta, dunque, dall’angustia delle
                 Valli, lo scenario si allargava per accogliere l’Europa riformata e sullo
                 sfondo si stagliava Cromwell e la sua rivoluzione.




                    93  F. Jalla, Il conte Federico von Dohna e Giosuè Gianavello, Bssv, 168, 1991, pp. 9-33.


                 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XV - Dicembre 2018     n.44
                 ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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