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Civale (saggi)_3 14/12/18 09:31 Pagina 514
514 Gianclaudio Civale
e la disciplina della comunità, si sentiva giustificato e per questo ne
domandò il riconoscimento mediante l’ammissione alla Cena.
Per i valdesi, Gianavello dovette costituire senza dubbio un esempio
di abnegazione nella provvidenza divina, di ascesi personale nel rendersi
braccio dei suoi disegni; proprio per questa ragione i suoi oppositori
ebbero il bisogno di abbatterne totalmente l’autorità, imbrattandone l’im-
magine. Semplice esecutore della volontà divina, vindice dei torti subiti
dal suo popolo e difensore della sua terra anche se l’adempimento di que-
sto mandato comportò opporsi alle leggi inique degli uomini, l’infamia del
bando, il darsi alla macchia e, infine, l’esilio, Gianavello può accomodarsi
all’archetipo hobsbawmiano del “bandito sociale” soltanto a condizione
che tra le aspirazioni delle genti che vi si riconosceva non si contemplino
soltanto le rivendicazioni dei corpi ma anche la realizzazione dell’anima.
Carico di una tale tensione spirituale, la sua figura sembra poter
essere accostata a quella che, all’incirca nel medesimo periodo, la reli-
giosità calvinista manifestò nella disperata, e per questo ancora più
necessariamente messianica, rivolta dei Camisards francesi, piuttosto
che nella New Model Army inglese. Nondimeno, le ragioni del suo cari-
sma non si esauriscono nelle virtù morali e militari di cui agli occhi dei
suoi fu dotato; come si è tentato di dimostrare: l’autorità di Gianavello
sui valdesi nasce e si giustifica soltanto all’interno del peculiare assetto
politico-religioso vigente nelle Valli, nella preminenza che i ministri riu-
scivano a esercitarvi, nella superiore investitura e legittimazione che
poterono conferirgli.
Di questa condizione parve egli stesso parzialmente consapevole
quando, riparato a Ginevra nel 1665, a un raffinato anfitrione volle
confessare che, se avesse potuto far ritorno in patria, «il se mettrait
derriére sa charrue, comme faisaient les capitaines de l’ancienne
Rome» . Nel ricorrere a quell’immagine mutuata dalla storia classica,
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di cui, contadino semianalfabeta, aveva sentito parlare, Gianavello
intendeva esprimere tutta la modestia e lo spirito di servizio che lo ave-
vano animato. Ma non era del tutto sincero, poiché di lì a pochi mesi,
come si è appurato, avrebbe tentato di ritornare alla sua terra per cer-
care il trionfo sui nemici di sempre; soprattutto, non si rendeva conto
che, al rievocare l’esempio di Cincinnato, riassumeva anche le contrad-
dizioni del sistema che lo avevano generato, quello di una repubblica
dei santi, affannosamente ricercata e ostinatamente difesa, che aveva
finito per farsi dittatura. Ancora una volta, dunque, dall’angustia delle
Valli, lo scenario si allargava per accogliere l’Europa riformata e sullo
sfondo si stagliava Cromwell e la sua rivoluzione.
93 F. Jalla, Il conte Federico von Dohna e Giosuè Gianavello, Bssv, 168, 1991, pp. 9-33.
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XV - Dicembre 2018 n.44
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)