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                 navale sia oggi ancora ben connessa alla sua udienza – personale
                 navale, politici, pubblico – come lo era stato in passato. La risposta
                 non sembra essere così ottimistica come la mole di pubblicazioni
                 potrebbe suggerire. La disciplina – che resta ancora troppo incentrata
                 sugli Stati Uniti e sull’Inghilterra e sulla prima metà del XX secolo –
                 si occupa troppo di battaglie, mentre la storia delle operazioni navali
                 può essere pienamente compresa solo qualora tutti gli attori coinvolti
                 siano sufficientemente analizzati, cosa che non avviene per molti dei
                 conflitti del passato. La forza di una marina non è determinata solo
                 dalla saldezza del suo sistema interno, ma anche dall’epoca e dalla
                 società in cui agisce, campi questi ultimi ancora poco esplorati, così
                 come andrebbe meglio esplorata la forza che una marina ha all’in-
                 terno della società in cui opera. Se alla fine del XIX secolo le marine
                 erano  ben  inserite  nelle  società  del  loro  tempo,  oggi  non  è  più  lo
                 stesso; il pubblico risulta estraneo ai temi del potere navale, proprio
                 mentre i costi di quest’ultimo aumentano in maniera esponenziale.
                 Sono problemi ai quali lo storico navale si dovrebbe dedicare con
                 maggior impegno.
                    Il secondo capitolo riporta indietro il lettore, con un’analisi dello
                 sviluppo del potere navale tra gli inizi del 1500 e la fine del 1700. Il
                 dominio in ambito storiografico della storia navale britannica – scritta
                 troppo spesso nella prospettiva navalista di fine Ottocento – ha pena-
                 lizzato le aree geografiche nelle quali la marina inglese operava con
                 minor intensità, quali il Mediterraneo e il Baltico, determinando dei
                 gravi fraintendimenti sulla natura dei conflitti in questi mari; così, ad
                 esempio, le tanto disprezzate galee avevano non solo ragioni opera-
                 tive, ma anche culturali e sociali, essendo considerate unità presti-
                 giose di fronte alle “plebee” navi da guerra a vela. Mancano inoltre
                 ricerche sulla composizione del corpo ufficiali e sugli equipaggi delle
                 flotte del Mar Baltico, cosa che, si può aggiungere, riguarda anche il
                 Mediterraneo. È interessante notare come siano studiosi inglesi (oltre
                 ad Harding, anche Nicholas Rodger pone con forza questi temi) a
                 criticare un approccio eccessivamente anglo-centrico, il quale carat-
                 terizza sovente anche la storiografia non anglo-sassone. L’anglo-cen-
                 trismo ha inoltre limitato i campi di ricerca, soprattutto relativamente
                 al periodo 1600-1650. Esso rimane poco studiato in quanto attrae
                 meno gli studiosi dopo i fasti (o supposti tali) elisabettiani e prima
                 delle vicende della guerra civile inglese e dello sviluppo della grande
                 flotta del Commonwealth. L’a. porta l’esempio della guerra dei Tren-
                 t’anni, per la quale l’aspetto terrestre beneficia di studi molto più
                 approfonditi rispetto a quello navale.


                 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XV - Dicembre 2018     n.44
                 ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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