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L’Esclave religieux di Antoine Quartier (Tripoli, 1660-1668), come fonte storica 159
rienza della schiavitù confortato dalla sua fede, nella cui forza salvifica
mediante il battesimo credeva nei termini allora stabiliti dalla Chiesa
cattolica: qualunque credente in caso di necessità poteva impartire vali-
damente quel sacramento. Di fronte al caso perciò di alcuni infanti gra-
vemente malati, con rischio di morte, ritenne suo dovere profittare della
possibilità offertagli dalle circostanze, e precisamente dalla richiesta
ricevuta di intervenire come medico a favore di quei piccoli – nel mondo
islamico era diffusa una grande fiducia nelle conoscenze mediche degli
europei –; impartì loro di nascosto il battesimo, e quando essi cedettero
al male fu consolato dal convincimento che avessero conseguito la feli-
cità eterna. Gli parve persino che il merito acquisito dalla loro salvezza
spirituale, e dunque la loro ‘intercessione’ gli fosse valso di «ottenere da
Dio la perseveranza e la forza di resistere alle sofferenze» e ai mali
affrontati, sino al contagio della peste, mentre altri più robusti di lui ne
erano morti ( p. 247).
In diversi punti delle sue memorie Quartier riferisce con neutralità,
in sostanza con rispetto, su aspetti della vita locale e su pratiche reli-
giose derivate dalla fede nella rivelazione del profeta Muhammad; quella
testimonianza e quelle osservazioni sono significative poiché con ben
più frequenza le memorie di schiavi tornati in patria o le storie che ne
raccontano la vicenda si esprimono con scarsa comprensione, con
affrettati giudizi e persino, ovviamente, con ripetitive denigrazioni e
scandalizzati anatemi verso l’islam e i suoi fedeli. Tanto più perciò ha
valore la testimonianza di segno contrario come quella del futuro reli-
gioso, uomo già allora di fede cristiana sinceramente vissuta.
Il punto più elevato del suo incontro con l’islam si ebbe quando
Quartier con un centinaio di altri schiavi europei secondo gli ordini del
pascià era stato trasferito a Misurata, il grande centro urbano ad est di
Tripoli, dove poi essi si erano attendati in una zona desertica, con più
forti disagi che non nella capitale. Qui il francese fece conoscenza con
Yusuf, un settantenne originario dell’Andalusia, la cui famiglia aveva
subito la repressione dell’Inquisizione, il padre era stato giustiziato per
la sua fedeltà alla religione islamica. Yusuf era cresciuto – in condizione
verosimilmente di schiavitù – in un convento di Siviglia, dove aveva
appreso anche il latino, conoscenza che si aggiungeva a quelle di arabo,
turco, spagnolo, oltre che della lingua franca. Quartier definisce Yusuf
come marabut; in italiano si traduce come marabutto il termine arabo
per indicare un musulmano, di particolare fede e dottrina, di esemplare
austera condotta, al quale i fedeli guardano con apprezzamento come
consigliere e guida spirituale. Yusuf mostrava atteggiamenti ‘evoluti’,
dettatigli dalla sua varietà di esperienze e di contatti tanto che consen-
tiva alle due figlie di conversare anche con uomini e per di più stranieri,
cristiani, anzi con molto rispetto e con sincera amicizia prospettò a
Quartier la possibilità di sottrarsi alla schiavitù e di mutare completa-
n.45 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVI - Aprile 2019
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)