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                 veneziano a tenere le fila di un gruppo fortemente eterogeneo, che con-
                 tinuava a promuovere l’unità dei cristiani. Non è un caso se Carafa si
                 scontrò più volte proprio con Contarini, dapprima in maniera dissimu-
                 lata, come per esempio durante la stesura del Consilium de emendanda
                 eccclesia, quando riuscì a inserire nel documento alcuni dei passaggi
                 che aveva già affidato al Memoriale che riguardavano le accuse nei con-
                 fronti della Penitenzieria, del malcostume dei frati e dei chierici, dello
                 scandalo degli apostati e dei predicatori itineranti; in seguito in maniera
                 più esplicita, quando i due furono chiamati da Paolo III a collaborare
                 alla riforma dei tribunali apostolici. L’iniziativa fu infatti fallimentare
                 ed evidenziò la distanza tra i due principali schieramenti curiali, che
                 avevano un differente approccio nei confronti della riforma protestante.
                    Ma se sul finire degli anni trenta lo scontro iniziava a prendere
                 forma, anche a causa della maggiore audacia di Carafa che, forte della
                 nomina  cardinalizia  del  1536,  poteva  uscire  dall’isolamento  cui  la
                 scelta teatina lo aveva confinato, denunciare pubblicamente le sue
                 posizioni, additare i complici e i protettori degli eretici e accusare aper-
                 tamente i propri nemici, una decina d’anni prima le posizioni appari-
                 vano ancora sfumate. A volte le necessità pratiche motivavano le scelte
                 e favorivano le relazioni, come accadde tra Carafa e Giberti i quali, per
                 breve  tempo,  si  servirono  più  o  meno  tacitamente  l’uno  dell’altro.
                 Carafa  stava  scontando  una  percepibile  emarginazione  dalla  vita
                 curiale e aveva bisogno dell’ex datario e dei suoi contatti per garantirsi
                 il rilascio di bolle e documenti per le sue attività inquisitoriali e per la
                 sopravvivenza a Venezia dell’ordine dei teatini. Dal canto suo, lasciata
                                                                                   89
                 Roma dopo le tormentate vicende che lo videro protagonista nel 1527 ,
                 nel tentativo di prendere pieno possesso della sua diocesi e di contra-
                 stare le ostilità del patriziato della Serenissima e dei canonici veronesi
                 preoccupati dalle sue finalità riformistiche, Giberti provò ad appog-
                 giarsi a Carafa e ai suoi chierici regolari, con cui era in contatto già dai
                 primi anni venti del Cinquecento e che aveva aiutato nell’acquisto della
                 loro prima abitazione . Il 14 settembre, a Venezia, durante il capitolo
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                 generale teatino, fu letta una lettera del vescovo «qui patres ad Veronae
                 domicilium figendum invitabat» .
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                    Tuttavia, per una serie di motivazioni, che spaziano dalla paura di
                 Carafa di perdere il pieno controllo sulla compagnia che aveva fondato
                 a sua immagine per consentirsi un inedito percorso di ascesa curiale
                 alle probabili difficoltà di Giberti di gestire una relazione con un per-


                    89  Giberti divenne vescovo di Verona nel 1524, ma per i primi quattro anni gestì la
                 diocesi da Roma per mezzo di vicari. Cfr. G. Alonge, Ludovico di Canossa, l’evangelismo
                 francese e la riforma gibertina, «Rivista Storica italiana», CXXVI (2014), pp. 5-54.
                    90  A. Vanni, «Fare diligente inquisitione» cit., pp. 104-105.
                    91  Atr, ms. 5, Atti dei capitoli generali, c. 8[bis]v.


                 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVI - Aprile 2019      n.45
                 ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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