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740 Orazio Cancila
dei commercianti attraverso lo sconto di cambiali. Il governo non fu
d’accordo, ma istituì proprie Casse di sconto a Palermo e a Messina,
con dotazioni però irrisorie che non valsero a risolvere il problema
della reperibilità di crediti a buon mercato.
Con l’unificazione italiana il “Banco Regio dei Reali dominii al di là
del faro” cambiò di fatto nome in Banco di Sicilia e dovette combattere
per alcuni anni, assieme al Banco di Napoli, contro i tentativi della
Banca Nazionale degli Stati Sardi di concentrare nelle sue sole mani il
servizio di emissione di carta moneta a corso legale e di creare nel
Meridione proprie succursali che avrebbero potuto determinare la sop-
pressione dei due banchi. Giuffrida ricostruisce l’intera vicenda che si
concluse con l’istituzione delle succursali della Banca Nazionale e il
riconoscimento nel 1867 dell’autonomia dei due banchi di Napoli e di
Sicilia.
Costituito in ente morale autonomo, il Banco di Sicilia − che sino
ad allora aveva operato soltanto nelle due sedi di Palermo e Messina −
poté lentamente trasformarsi in un vero e proprio istituto di credito ed
estendere la sua attività non solo in altre città dell’isola (Catania e
Girgenti, in primo luogo) ma anche del continente. La prevalenza
dell’elemento elettivo nel suo consiglio di amministrazione (quattro
membri contro tre di nomina governativa) prevista dal suo ordina-
mento ne avrebbe però condizionato negativamente lo sviluppo e le
capacità operative rispetto agli altri istituti di natura azionaria quale
era ad esempio la Banca Nazionale nel Regno.
Nel primi anni Settanta, il Banco istituì succursali a Trapani, Cal-
tanissetta, Siracusa e nel 1874 a Roma, primo tassello di una espan-
sione nel continente che sarebbe proseguita negli anni successivi con
l’apertura di nuove sedi nelle più importanti città italiane. Ma intanto
nel 1875 giungeva una brutta crisi, che metteva in pericolo la stessa
esistenza del banco, il cui CdA negli anni precedenti aveva largheg-
giato nella concessione di sconti, crediti e anticipazioni, senza preoc-
cuparsi eccessivamente di richiedere le giuste garanzie, cosicché gli
effetti in sofferenza si erano moltiplicati. Sotto accusa in particolare
finivano gli oltre tre milioni concessi al barone Ignazio Genuardi, con-
cessionario di alcune miniere di zolfo, e i quattro milioni alla compa-
gnia armatoriale “La Trinacria”.
In verità il barone Genuardi era persona di notoria solidità patrimo-
niale, ma la flessione dei prezzi dello zolfo dopo il 1870 e la conseguente
crisi di sovrapproduzione lo portarono al fallimento, che coinvolse anche
numerosi privati che gli avevano affidato i loro risparmi, allettati dalla
concessione di interessi esagerati. Se dobbiamo prestar fede a uno dei
suoi accusatori, Gaetano Pancamo, che presentò l’istanza di fallimento,
il barone Genuardi si era infatti trasformato in un moderno “mago dei
soldi”: «vantando – egli scrive – speculazioni sconosciute lucrosissime,
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XVIII - Dicembre 2021
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)