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376 Rossella Cancila
In linea con i classici, Ingrassia destina uno spazio importante alla
dietetica, a partire dalla convinzione che la stessa alimentazione non
si addice ai sani e ai malati, e che occorre trovare il cibo giusto per
ognuno, rispettando la costituzione corporea in modo da favorirne l’as-
similazione. Delinea così un regime alimentare (mangiare e bere)
adatto anche ai sani, con riferimento alla «quantità, sostanza, qualità,
ordine e diversità dei cibi», distinguendolo da quello destinato agli in-
fermi . Considera insomma il modo di rapportarsi e di intendere il
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cibo come uno strumento per difendersi dalla malattia e per procurarsi
benessere, rivolgendo attenzione alla dieta a scopo preventivo: la peste
non deriva dal cibo, ma il cibo buono rende il corpo più resistente .
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Nelle sue indicazioni tiene perciò sempre presenti le qualità primarie
dei cibi (caldo, freddo, secco, umido) e la loro combinazione, in quanto
la loro natura attraverso la digestione produceva degli umori che ave-
vano effetti diversi sul corpo anche in relazione al temperamento, l’età
e la stagione. Al di là delle teorie prende però in considerazione l’espe-
rienza diretta e i prodotti disponibili sul territorio. In questo modo av-
vicina le pratiche alimentari ai consigli terapeutici sul cibo per la con-
servazione della salute.
«La fame non è buona», ma è altresì importante «mangiare per vi-
vere, et non vivere per mangiare» . Complessivamente Ingrassia non
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appare molto attento al digiuno per devozione, al quale riserva solo
poche righe: ribadisce che con il digiuno si sanano le pestilenze del
corpo, ma non indugia sul tema, convinto che fame, sete e gran di-
giuno abbiano effetti negativi sul corpo . Indicava pertanto sei regole
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di base il cui perno è sempre la digestione così come la necessità di
evitare l’occlusione intestinale: 1) non si mangi il secondo cibo, se
57 G.F. Ingrassia, Informatione cit., parte III, cap. III, p. 425 [1].
58 M. Nicoud, Les régimes de santé au Moyen Âge cit. Cfr. anche il recente A. D’Am-
brosio, Cibo ed epidemie. Atavola con gli appestati (secc. XVI -XVII), «Idomeneo» 32 (2021),
pp. 107-132.
59 La versione in latino è non ut edam vivo, sed ut vivam edo: l’espressione, attribuita
a Socrate, è ampiamente attestata presso autori greci e latini, tra cui Quintiliano (Insti-
tutionis oratoriae IX 3, 85).
60 Della stessa opinione è anche il medico Antonio Glisente, che nello stesso anno
1576 pubblicò il suo Trattato del regimento del vivere cit.: sostanzialmente d’accordo con
Ingrassia sostenne che pur rimanendo fedeli ai precetti della Chiesa circa la qualità dei
cibi consentiti, era però necessario fare attenzione alle quantità per non indebolire
troppo il corpo, così da renderlo «più atto a ricevere li mali vapori che scorrono per l’aria»,
in quanto la peste colpiva soprattutto i più deboli. La tendenza comune era infatti di
mangiare di più dopo il digiuno a causa della fame patita, ed era perciò consigliabile
«usare gli digiuni moderatamente». Su Glisente, cfr. P. Preto, Peste e società a Venezia
cit., pp. 66-67. Sulla relazione tra cristianità e cibo, cfr. D. Gentilcore, Food and Health
in Early Modern Europe: Diet, Medicine and Society, 1450-1800, Bloomsbury, London,
2016, pp. 96-99, che nelle pagine successive analizza l’impatto della Riforma (nelle due
anime protestante e cattolica) sul consumo di alcuni cibi.
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIX - Agosto 2022
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)