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Tra cielo e terra: la condizione vedovile a Palermo nel tardo medioevo   263


                    6. Considerazioni conclusive

                       Nel Quattrocento la Corte Pretoriana di Palermo diede ragione ad
                    Agata, vedova di Giovanni Ventimiglia, secondo la quale la figlia Eleo-
                    nora di 11 anni poteva ricevere la dote dal fratello Francesco, perché
                    le  consuetudini  di  Palermo  prevedevano  che  «li  citelli  tantu  gintili
                    donni quantu populari e plebei» fossero date in moglie tra i dieci e gli
                    undici anni. L’età si riferiva agli sponsalia (promessa di matrimonio),
                    non al matrimonium che poteva essere celebrato al compimento dei 12
                    anni 160 . La giovanissima età delle spose lascia immaginare che il nu-
                    mero delle vedove fosse elevato, dato testimoniato, peraltro, dalla do-
                    cumentazione edita e, soprattutto, inedita esaminata.
                       Tra il 1298 e il 1464 a Palermo la percentuale di testatori che no-
                    minavano la vedova erede universale si aggirava tra il 20 e il 28%,
                    sebbene i beni potessero, in seguito, passare a un’altra famiglia per
                    testamento, morte ab intestato o per un nuovo matrimonio 161 . Tutte le
                    vedove di Palermo potevano essere tutrici dei figli e gestire i beni del
                    marito, indipendentemente dalla loro posizione sociale e anche senza
                    un’esplicita disposizione testamentaria
                       Al di là della trasfigurazione artistica e letteraria che incasellava
                    le donne all’interno degli opposti stereotipi della buona e della cattiva
                    vedova, la realtà era complessa e variegata. Le esigenze economiche
                    orientavano le scelte, mentre le vedove facoltose potevano decisere se
                    e con chi risposarsi, quelle povere prendevano marito per sopravvi-
                    vere. Appare lontano dalle convenzioni il caso di Filippa Denti, ab-
                    bandonata a Palermo dal marito Palmerio de Perino, che andò «per
                    diversas mundi partes». Filippa «ex quorundam relacione multociens»
                    si convinse che il marito fosse morto e i genitori la promisero in sposa
                    a Bachumeo Spezalasti, calzolaio di Pisa, che nel 1334 ricevette 12
                    onze in denaro e 13 in corredo. Quando Palmerio tornò, il secondo
                    matrimonio «sit dissolutum» e nel 1337 Bachumeo restituì la dote. Il
                    notaio rimarca che le seconde nozze erano nulle, ma i genitori ave-
                    vano  dotato  la  figlia  per  farla  risposare  «sub  ecclesiastica  benedi-
                    cione», credendo che fosse rimasta vedova. Il nuovo matrimonio fu
                    sciolto all’arrivo del primo marito, che riprese il suo posto come se
                    nulla fosse accaduto 162 .




                       160   A.  Giuffrida,  La giustizia nel Medioevo siciliano,  U.  Manfredi  editore,  Palermo,
                    1975, p. 87. Sull’argomento, cfr. C.A. Garufi, Ricerche sugli usi nuziali nel Medio Evo in
                    Sicilia, r. a. Arnaldo Forni, Sala Bolognese, 1978, p. 34.
                       161  H. Bresc, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile 1300-1450, Ac-
                    cademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo, Palermo 1986, vol. II, pp. 688-689.
                       162  Asp, N, reg. 4, Salerno de Peregrino, cc. 93r-94r («si matrimonium dici potest» e
                    «quod matrimonium dici non potest»).


                                                 Mediterranea - ricerche storiche - Anno XX - Agosto 2023
                                                           ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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