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Le streghe di Isnello. La magia come crimine nelle Madonie d’antico regime 109
pertanto, un processo avviato dal vicario curato dovesse sempre con-
cludersi al cospetto del vescovo. Le memorie presentano molte delle
caratteristiche tipiche degli atti difensivi cinque-seicenteschi, con al-
cune singolari differenze. Di norma la trattazione si articolava in due
parti distinte: la prima in facto redatta in volgare, la seconda in iure
rigorosamente in latino . Nei processi di Isnello, il diritto precedeva il
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fatto e ad entrambe le frazioni, discusse in latino, si dedicavano poche
righe. La consueta retorica degli avvocati d’antico regime, esperti in
citazioni erudite e magniloquenti spesso fuori luogo, è poco rappre-
sentata . Il cuore della memoria diveniva, invece, un capitolato di
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prova espresso in più voci, mediante il quale il patronus illustrava il
materiale probatorio favorevole all’assoluzione della sua assistita. L’af-
fermazione «immo prosecutio ipsa nulla est» precedeva la disamina dei
capitoli, ognuno dei quali sottendeva una ragione fondamentale utile
a dimostrare la nullità della tesi accusatoria ed era, pertanto, sempre
introdotto dalla formula «ad quod probandum» . Il capitolo veniva poi
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riproposto in forma breve in italiano regionale, secondo uno schema
già riscontrabile in altri processi coevi celebrati presso la Corte Epi-
scopale di Cefalù . Il patronus terminava la memoria chiedendo la
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piena assoluzione dell’imputata, dopo aver annunciato eventuali testi
a sua istanza .
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Nelle questioni di sostanza, i memoriali delle streghe di Isnello cor-
risposero pienamente alla norma della difesa tecnica d’antico regime .
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66 Per la lingua degli atti giuridici dell’epoca si rimanda a I. Birocchi, Alla ricerca
dell’ordine. Fonti e cultura giuridica in Età moderna, Giappichelli Editore, Torino,
2002, pp. 307-310.
67 Per la dialettica erudita tipica della difesa tecnica del diritto comune, si veda
ancora E. Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia University Press, Pavia,
2013, p. 134.
68 Aspi, Chiesa Madre, Sez. 3, s. 5, n. 6, D. 3, ff. 14r-15v e D. 7, ff. 6v-7r.
69 Si veda, tra gli altri, Asdc, Fondo Curia, Settore Giudiziario, Processi crimi-
nali, s. 540, n. 18, ff. 8v-11v.
70 Nei processi causa fidei, l’avvocato non poteva assistere all’interrogatorio del
suo assistito, soprattutto in caso di tortura, né aveva la possibilità di interrogare i
testi della difesa. Si rimanda alla voce Advocatus di Q. Mandosio, P. Vendramini,
Repertorium Inquisitorum pravitatis haereticae, apud Damianum Zanaro, Venezia,
1675, pp. 32-36.
71 La difesa tecnica di diritto comune, esercitata presso i fori di ogni ordine e
grado, è considerata di bassissima qualità dalla totalità degli studi. La gran parte
delle memorie riportava, infatti, meri giudizi di valore sull’attendibilità dei testi e
della vittima, insistendo continuamente e con un ritmo quasi ossessivo sulla mo-
ralità e sulla buona fama dell’imputato. Del pari, le deposizioni dei testi ad instan-
tiam prosecuti, sempre molto simili tra loro, non intervenivano quasi mai nel me-
rito, ma si basavano esclusivamente sul duplice obiettivo di gettare discredito sulla
vittima e confermare l’indubbia integrità del reo. Si vedano D. Edigati, Gli occhi del
Granduca. Tecniche inquisitorie e arbitrio giudiziale tra stylus Curiae e ius commune
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XXI - Aprile 2024
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)