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                L’avvocato di Antonia Tulia sostenne l’inattendibilità degli accusatori
                e, com’era prassi, la moralità dell’accusata. Sottolineò l’indigenza dei
                testimoni, «personi che per la loro povertà facilmenti possono essere
                indutti a diri quello che non è»; esaltò l’impegno civico della sua assi-
                stita, «donna virtuosa et di buoni costumi», la cui agiatezza suscitava
                invidie; celebrò le terapie con cui curava gli «infirmos», per le quali non
                solo doveva essere assolta ma anche «laudata». Il difensore, tuttavia,
                cadde in evidente contraddizione proprio nel tentativo di capovolgere
                l’accusa. Spingendosi a dichiarare inammissibile che i riti curativi con-
                figurassero  il  reato  di  stregoneria  ed  evidenziandone  la  somiglianza
                con «bagni et unguenti» con cui «tutti li boni vecchi solino ungere et
                lavare gli ammalati», accreditò le tesi di controparte, secondo le quali
                Antonia Tulia era effettivamente una guaritrice clandestina . Per il
                                                                           72
                tribunale del vescovo la magàra era comunque condannabile, non in
                quanto eretica, ma perché somministrava farmaci dietro compenso e
                al di fuori della medicina ufficiale.
                   La strategia di difesa di Paola Laparo fu, invece, più convincente.
                L’avvocato non mancò di cedere ai soliti stilemi del diritto comune e
                rilevò tra gli argomenti a suo favore l’irreprensibilità della donna, «ti-
                morosa di Dio et della giustizia, solita confessarsi et comunicarsi che
                mai have avuto fama di magàra o superstiziosa» . Basò, nondimeno,
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                il suo modello probatorio su un fatto reale, capace di mettere in dubbio
                non la moralità dei denunciatori di Paola, ma le ragioni stesse per cui
                essi avevano presentato querela. Il patronus ricostruì nei dettagli una
                precedente lite durante la quale i querelanti avevano «assicutato alla
                ditta Paola»  pure «dicendoli diversi ingiuri» e poté avvalorare il fatto
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                mediante l’escussione di un numero di prove testimoniali superiore a
                quelle addotte dal procuratore . Nelle maglie di un sistema difensivo
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                spesso solo formale e poco efficace, si registrava qualche eccezione.
                Era difficile, però, che simili argomenti avessero una reale influenza
                sulla sentenza. Se le indagini del suo difensore fecero assolvere Paola
                Laparo è fatto indimostrabile, poiché il fascicolo che conserva il pro-
                cesso manca del verdetto finale.




                nella Toscana secentesca, Edizioni ETS, Pisa, 2009, pp. 204-239 e G. Alessi, Le
                contraddizioni del processo misto, in M. Marmo, L. Musella (a cura di), La costru-
                zione della verità giudiziaria, ClioPress, Napoli, 2003, pp. 13-52.
                   72  Aspi, Chiesa Madre, Sez. 3, s. 5, n. 6, D. 3, f. 14v-15r.
                   73  Ivi, D. 7, ff. 7r-v.
                   74  Assicutari vale per «correr dietro, rincorrere». Era (ed è) usato spesso come in
                questo caso, con l’accezione di inseguire nell’intento di percuotere. Si rimanda a
                M. Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico cit., t. I, pp. 154-155.
                   75  Aspi, Chiesa Madre, Sez. 3, s. 5, n. 6, D. 7, ff. 8r-9v.



                Mediterranea - ricerche storiche - Anno XXI - Aprile 2024
                ISSN 1824-3010 (stampa)  ISSN 1828-230X (online)
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