Page 112 - Mediterranea 60
P. 112
112 Andrea Profeta
vicario generale . Con ogni probabilità, la Curia Spiritualis di Isnello
78
non era titolata a concludere il giudizio.
Il brevissimo processo contro Lucia Maurino ebbe termine appena
due giorni dopo la sua istruzione: l’imputata, giudicata colpevole di aver
inflitto un maleficio alla baronessa, fu bandita per sempre dalla terra
dei Santacolomba con sentenza del 24 giugno 1560. Per rendere esecu-
tivo il provvedimento di esilio furono necessari tre giorni, durante i quali
la strega dovette seguire «una missa alla mattina» e «per sera dui missi»,
assistendovi in piedi di fronte alla chiesa «con una torcia allomata» .
79
Michela Brigaglia fu punita tre volte dal tribunale diocesano: nel
1600 in quanto strega, nel 1602 quale concubina di don Aurelio San-
tacolomba, nel 1611 come mezzana. In mancanza della sentenza, non
è possibile accertare la natura della pena subita per magarìa, ma è
indubbio che non si trattò di un’assoluzione. Accusata più tardi per la
relazione con il figlio del barone, la fattucchiera ammise infatti di aver
già scontato un castigo senza specificarne l’entità . La corte accertò il
80
crimine dei due concubini due giorni dopo quell’interrogatorio e alla
donna fu comminato l’esilio «per annos tres continuos et completos» .
81
Soltanto nel giugno 1611, esauriti i tempi della reclusione cui fu con-
dannata perché ruffiana, Michela poté rientrare a Isnello pienamente
riabilitata, dopo aver ripagato «la pleggeria sotto la quale si ritrovava
82
legata per Regno et mare» .
83
I processi contro le guaritrici Perna Coccìa e Antonia Tulia ebbero un
decorso identico. Acquisite le carte del giudizio celebrato a Isnello, il
vescovo Martino Mira ordinò che entrambe si presentassero a Cefalù il
22 luglio 1607. Tre giorni dopo, senza ancora un verdetto di colpevo-
lezza, le magàre subirono ingiunzioni simili: Perna fu costretta a risie-
dere nella città del vescovo, «detenendo civitate Cefaludi pro carcere et
78 Aspi, Chiesa Madre, Sez. 3, s. 5, n. 6, D. 1, ff. 3v, 4v e D. 3, f. 1r; Asdc, Fondo
Curia, Busta 10, n. 58, f. 96v; Busta 69, n. 232, ff. 2r-v.
79 L’uso della candela accesa, simbolo della fede, è attestato in Sicilia anche per
altre coeve manifestazioni di espiazione, in primis l’autodafé: il penitente, indos-
sando la tipica veste bianca, ascoltava la celebrazione della messa reggendo un
cero che veniva acceso dopo la lettura della condanna: cfr. M. S. Messana, Inquisi-
tori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500-1782) cit., pp. 162 e 172. Per
la sentenza del processo contro Lucia Maurino si veda Aspi, Chiesa Madre, Sez. 3,
s. 5, n. 6, D. 1, f. 3v.
80 Ivi, D. 2, ff. 3r-v.
81 Asdc, Fondo Curia, Busta 10, n. 58, f.
82 Pleggiu era il garante (cfr. M. Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico cit.,
t. IV, p. 134). Pleggeria era, dunque, una garanzia, un’ammenda mediante cui si
poteva commutare una condanna. Si veda N. Gervasi, Siculae Sanctiones nunc pri-
mum typis excusae aut extra Corpus iuris municipalis hactenus vagantes, apud Pe-
trum Bentivegna, Palermo, 1754, t. V, pp. 142 e 162-163.
83 Asdc, Fondo Curia, Busta 69, n. 234, ff. 22v-23r.
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XXI - Aprile 2024
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)