Page 115 - Mediterranea 60
P. 115
Le streghe di Isnello. La magia come crimine nelle Madonie d’antico regime 115
Santacolomba e ricevevano, infatti, frequenti richieste di cure. Se so-
spettate, però, diventavano soggetti improvvisamente pericolosi per la
collettività: gli stessi pazienti si trasformavano in feroci accusatori,
pronti a descrivere nel dettaglio le terapie e sicuri di ricevere un qualche
vantaggio dalla loro collaborazione con la corte.
Inoltre, deposizioni vertenti su episodi diversi presentavano innu-
merevoli coincidenze. La reputazione di una strega si costruiva, infatti,
in modo inesorabile: il trascorrere del tempo diluiva il ricordo dei suoi
meriti, ma su di lei si accumulavano sospetti, cui era facile ricorrere
al momento del processo . Nel 1658 i racconti dei suoi pazienti costa-
96
rono cento frustate a Pietro La Bruna, «chirurgo et fattucchiero ma-
lioso» del borgo cefaludese di Collesano. Il medico, condannato dal
Santo Oficio perché «con sue malie ingannava la plebe», comparve in
un autodafé celebrato a Palermo il 17 marzo dello stesso anno . È
97
difficile stabilire quale vantaggio potesse ottenere chi denunciava o ac-
cusava il proprio guaritore. In generale, però, emerge sempre con mag-
giore evidenza la capacità del popolo semplice di piegare la giustizia a
interessi individuali. I siciliani del XVII secolo conoscevano bene gli usi
giudiziari, sapevano muoversi attraverso il complesso mosaico giuri-
sdizionale delle magistrature del viceregno, erano in grado di far valere
i propri diritti .
98
Questi aspetti sembrano configurare l’accusa di stregoneria come
rivelatrice di un crimine essenzialmente privato, di rado destinato ad
evoluzioni estreme e consumato nella maggioranza dei casi presso i
più umili abitanti del contado. Eppure, ben tre degli otto processi
istruiti a Isnello per magarìa tra il 1557 e il 1614 coinvolsero diret-
tamente l’élite locale. Il tentato maleficio di Lucia Maurino ai danni
dei Santacolomba fu un caso di pubblico interesse, capace di cattu-
rare in pochi giorni l’attenzione del vicario generale del vescovo di
Cefalù. La fattucchiera Michela Brigaglia era la concubina di uno dei
figli del barone, verso cui, peraltro, la giustizia vescovile esercitò solo
in parte la presunta indulgenza in genere riservata ai nobili. Le donne
del mazzuni furono, invece, al centro di un vero e proprio caso poli-
tico che contrappose i massimi poteri della baronia, quello laico e
96 Simili le deduzioni di Di Simplicio relativamente ai processi senesi, benché
lo studioso consideri l’accumularsi degli indizi come utile a formare un’accusa col-
lettiva piuttosto che un inventario di suggestioni cui attingere per ottenere vantaggi
personali. Si rimanda, ancora una volta, a O. Di Simplicio, L’Inquisizione a Siena.
I processi di stregoneria (1580-1721) cit., p. 1097.
97 Bcp, Sezione Manoscritti, QQ F 234, ff. 618r-v.
98 Nella Cefalù del 1627, una vedova indigente poteva richiedere (e ottenere) la
ricusazione di uno dei procuratori del vescovo perché lo riteneva connivente ri-
spetto alle azioni dell’imputato: cfr. Asdc, Fondo Curia, Settore Giudiziario, Pro-
cessi criminali, s. 541, n. 20, f. 1r.
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XXI - Aprile 2024
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)